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Segnalibro | Carlos Solito: "La mia chiamata alle arti"

Pubblicato da: Categoria: CULTURA

20
OTT
2020

Sono in libreria. Passeggio distrattamente tra gli scaffali e un libro cattura il mio sguardo. In copertina luce e caratteri dorati. “Questo autore lo conosco”, mi dico. Lo sfoglio e ogni pagina, ogni foto, diventano goduria per gli occhi, balsamo per l’anima.

Carlos Solito, nel suo volume fotografico “Sogno a Sud” non si limita a raccontare una storia. Ne narra dieci, cento, mille. Tante quanti i soggetti da lui ritratti. Tante quanti i lettori che si incanteranno dinanzi a quelle pagine, dove luci e ombre si susseguono, si mescolano, danzano insieme per creare qualcosa di magico. L’esposizione di Dalí a Matera ha dato vita a un progetto che è fatto non solo per essere guardato, ma per essere vissuto.

Lasciate il cuore aperto, oh voi che vi accingete a sfogliare l’ultimo lavoro di Carlos. Scrittore, fotografo, giornalista. Carlos Solito è un artista poliedrico e curioso in grado di ricreare il mondo con la sua fantasia e la sua immaginazione. Leggere per credere.

 

Dalle tue ultime pubblicazioni è evidente che avverti un forte legame con Matera. Cosa ti affascina di questa città?

«Le vertigini che invitano a un viaggio verticale, quello che passa dalla luce del sole all’ombra delle caverne. Lo trovo affascinante, decisamente inedito. E, poi, Matera è narrativa rocciosa scritta e cavata con tenacia, ossessione geometrica, paradosso visivo, senso di vuoto e grazia indiscutibili. Quest’opera, ingegnosa come un rompicapo di Escher, trova il suo filone aurifero proprio nella sua semplicissima materia: la pietra. Come l’inchiostro per un libro».

 

Il fatto che nel 2019 sia stata eletta Capitale Europea della Cultura pensi che possa giovare al Sud intero?

«Il Sud, questo Mezzogiorno pieno di luce meridiana e lentezza, ha bisogno di riletture e nuove interpretazioni di tutto ciò che è noto, che ci appartiene. L’anno mirabilis 2019 per la Città dei Sassi ha reso possibile e dimostrato tutto questo. Ci sono tanti luoghi tra Basilicata, Puglia, Molise, Campania, Calabria e Sicilia che, da secoli, alcuni da millenni, aspettano i riflettori giusti per moltiplicare il miracolo Matera. Quindi: “chiamata alle arti”».

 

In che modo Salvador Dalí si inserisce in questo contesto? Sembrerebbero quasi agli antipodi: Matera, antica e rupestre; Dalí così moderno, astratto. Eppure il connubio di questi due elementi crea qualcosa di speciale.

«Indipendentemente da Dalí e Matera, tutto ciò che entra in contatto – ovunque - fa connubio, contaminazione, imbastardisce i pensieri, fa nascere nuove riflessioni, punti di vista, filosofie e quindi culture e nuove visioni per interpretare ciò che ci circonda e il concetto stesso dell’esistere: la Magna Grecia ce lo insegna. L’incontro tra Salvador Dalí e il capoluogo lucano, due mondi agli antipodi, uniti dallo sfondo metafisico della pietra, è stato possibile proprio grazie a una visione (e intuizione) di Beniamino Levi e Marco Franchi della Dalí Universe che gestisce una delle più grandi collezioni private al mondo di opere (soprattutto scultoree) di Salvador Dalí. Nell’anno della capitale europea della cultura 2019 aver inaugurato a Matera la mostra La persistenza degli opposti (la cui installazione creativa è firmata dal direttore artistico Roberto Panté) ha permesso ai visitatori di ogni parte del mondo di poter scoprire quanto l’arte sia, soprattutto, contaminazione, visione, sorpresa e soprattutto destabilizzazione. E nonostante i grandi riflettori sul corpus di opere monumentali nei Sassi e nel percorso ipogeo del complesso di San Nicola dei Greci e Santa Maria delle Virtù, confesso che questo incrocio Dalí Matera è sempre una sorpresa. Che ammutolisce e riempie di quesiti, infiniti».

In “Sogno a Sud” mantieni questo andamento dicotomico, associazioni di contrapposizioni. Immagini con luci fredde accanto a toni caldi e arancioni. Uomo/Donna. Vecchio/Giovane. Intimità/Esposizione. Raccontami il tuo lavoro. Quando e come nasce?

«Sogno a Sud è stata una sfida himalayana, una scalata davvero tosta: sfido chiunque a confrontarsi con il padre del Surrealismo e la madre di quel Mediterraneo rupestre che è Matera. Tutte le volte che lo sfoglio, ogni fotografia delle duecento e passa pagine mi soffia un aneddoto, un ricordo, un momento della campagna fotografica lunga due mesi. Tutto nasce circa un anno e mezzo fa quando la Dalí Universe insieme alla Rizzoli mi chiesero di raccontare, attraverso la mia lente narrativa, il genio catalano che aveva già fatto accendere la febbre del surrealismo tra i Sassi con la mostra “La Persistenza degli Opposti”. È stata un’avventura, da vertigini».

 

Un libro fotografico è tanto potente quanto più le immagini sono in grado di raccontare una storia. Quando scatti, come capisci dove rivolgere il tuo sguardo? Cosa cerchi? Da cosa sei attratto?

«In realtà più che capire lo sento: è una sorta di magnetismo creativo che, in una frazione di secondo, condensa luci forme soggetti. Sono attratto da tutto ciò che vive e viaggia, anche da fermo. Come in ogni mia opera cerco di fare il paio con la mia più grande passione, nonché metafora, il viaggio: un processo esistenziale, a parer mio indispensabile, legato alla nostra natura più profonda e mutevole. Non può esserci un’esistenza senza quell’inevitabile “immersione andante” di cambiamento. Così come accennato dal filosofo greco Parmenide, Agostino di Ippona, Nietzsche e George Santayana, il viaggio è un’esperienza fondamentale della vita che - attraverso nascita, scoperta, nostos, arrivo - impartisce la più sacra delle crescite al condimento di esperienza, smarrimento, inquietudine, incontro, sublimazione. Tutti ingredienti fondamentali anche a un processo creativo, esso stesso un vero e proprio viaggio. Quindi l’artista come viator».

 

Sai già cosa raccontare, o la storia nasce in post-produzione? Mi spiego meglio: esci a scattare con il preciso intento di trovare ciò che cerchi oppure funziona al contrario, ossia fotografi ciò che ti cattura e solo in fase di assemblaggio nasce un percorso specifico?

«Dipende dalla natura del lavoro commissionatomi. Ci sono casi in cui devo raccontare una storia nuda e cruda, così com’è, e quindi lo faccio attraverso il realismo del reportage: prendo e parto, quasi sempre da solo. Altri casi, invece, meritano una preparazione e produzione più strutturata: insomma una fase di scrittura alla quale segue il set con tanto di troupe e poi la post-produzione».

 

Tornando a Dalí, lui era un visionario e tu, in quanto a immaginazione e capacità di vedere oltre il visibile, non sei certo da meno. Quanto ti senti vicino alla sua arte?

«Inscenare l’onirico di uno degli artisti più importanti e discussi del Novecento è cosa tutt’altro che semplice. Raccontare Salvador Dalí, o chiunque altro del suo calibro, è un po’ chiedersi cosa si potrà mai aggiungere alla tanta letteratura di figure così emblematiche. Io c’ho provato e durante questo processo creativo ho avuto la conferma a qualcosa che ho sempre pensato sin da bambino, quando seguivo mia nonna lungo le sue passeggiate campestri sul bordo della gravina di Riggio a Grottaglie (il mio paese natale), durante la raccolta di cicorie e altre verdure di campo. Mentre lei si allontanava per sporgersi a raccogliere i capperi, io toglievo scarpe e calzini per mettere i piedi a mollo nelle vertigini immaginando quel vuoto della gravina come un mare fresco. E poi, stendendomi, a spiare il sole tra le fronde danzanti parlavo a un ulivo al quale diedi il nome di Orazio. Gli raccontavo quello che i miei occhi vedevano, il mare anche dove non c’era, ad esempio. Da allora nulla è cambiato, da allora cerco di dare immagini alle mie visioni, proprio come fanno i bambini».

Occhi curiosi, cuore girovago e passi che non si fermano mai. Quando però hai bisogno di una pausa, qual è il tuo posto nel mondo? Cosa è in grado di farti dire: mi fermo qui, almeno per un po’?

«Essere artista, al di là delle autoreferenze, è una condizione insita con la quale tocca misurarsi ogni giorno, ogni momento, a ogni respiro. In una parola sola è un’ossessione di ricerca che non ha una meta, una vetta, ma qualcosa che sperimenta una lietezza per sedare il perenne senso di inquietudine. Ironia, egocentrismo, altruismo, egoismo, narcisismo e chi più ne ha più ne metta sono solo le inequivocabili condizioni con le quali un artista “costruisce” la propria immagine – nella maggior parte dei casi con un retroterra fragile - per affrontare il mondo e lo smarrimento, fisico e spirituale, che vive in esso. Per creare, come ha fatto per decenni in maniera bulimica e convulsa Dalí, occorre ardentemente desiderare qualcosa o qualcuno. Anche un luogo dove ritirarsi, che – come dici tu – mi faccia dire: “Mi fermo qui”. E, spesso e volentieri, mi fermo in Irpinia, tra le frescure nordiche dei monti Picentini con faggete e castagneti a perdita d’occhio. Se mi affaccio alla finestra vedo un gran ben di Dio che si chiama natura, allo stato puro e, per certi versi, primevo. È una terra l’Irpinia, la cosiddetta di Mezzo, nella quale da quindici anni a questa parte torno per coltivare silenzio ricordi e piantare sogni. Ma anche per dichiarare pace alla parte più inquieta di me».

 

A cosa stai lavorando adesso?

«La mia esistenza è una dinamo, senza progettare mi sembra di non dare luce (ovviamente mi riferisco alla più nobile delle declinazioni). Senza fare, anche col più feroce sole, mi pare di stare in un cono d’ombra operativo. Sto strutturando nuove campagne fotografiche tra Italia, Belgio, Francia e Sud Africa che saranno dei nuovi libri fotografici. A breve saranno distribuiti i miei nuovi cortometraggi L’Acchiappavento e TerraCotta nei quali hanno recitato attori del piccolo e grande schermo come Imma Piro, Nando Irene, Katia Greco e Roberta Mattei. Inoltre sto scrivendo un nuovo romanzo che uscirà nel 2021 per il Gruppo Mondadori e sarà ambientato tra Londra e la nostra Puglia. Ma c’è anche un libro che avrà a che fare con Dante».

Roberta Criscio

Foto di Francalaura Rella



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